PAROLA AGLI SGUARDI

La pandemia che stiamo vivendo ha reso lo sguardo il protagonista dell’interazione con gli altri. Le mascherine protettive coprono i volti, i sorrisi, le espressioni impedendo gran parte di quella comunicazione non verbale così importante per interagire in modo silenzioso con l’altro. Andiamo così a caccia di sguardi, cercando di ricostruire, attraverso di essi, la parte celata dei volti e le silenziose parole di chi ci sta di fronte.

Ma non siamo di certo i primi a sperimentare questa limitazione e a cercare di sviluppare nuovi linguaggi non verbali per interagire, come ha dimostrato Behnāz Farahi in uno dei suoi ultimi progetti che uniscono intelligenza artificiale, moda e design computazionale: Can the subaltern speak?

Can the subaltern speak? è la domanda che si rivolgono le due maschere frutto dell’omonimo progetto dell’architetta e designer iraniana Behnāz Farahi, attualmente docente presso la California State University. Le maschere, grazie allo sviluppo di complessi sistemi di intelligenza artificiale, sono in grado di dialogare tra loro utilizzando come unico mezzo lo sguardo. Molte sono le riflessioni mobilitate dalla designer per dare una risposta innovativa alla domanda che la teorica femminista Gayatri Spivak si è posta nel saggio di cui il progetto prende il nome, “Can the subaltern speak?”.

L’idea è nata dal fascino subito da Behnāz Farahi per il neqāb-e bandari, un particolare tipo di niqab indossato dalle donne iraniane nella regione dello stretto di Hormuz. Si presenta come una maschera rettangolare realizzata in un tessuto spesso e rigido, tradizionalmente di colore rosso e finemente decorato. Le sue origini sono incerte e tra le varie ipotesi vi è quella che lega l’inizio del suo utilizzo alla colonizzazione portoghese del XVI secolo, quando le donne, per nascondere i propri volti agli schiavisti, iniziarono a celarli dietro a queste maschere che diventarono funzionali anche al bisogno patriarcale di protezione. Gli occhi rimanevano così l’unico mezzo attraverso cui comunicare in un periodo storico e in un contesto sociale in cui il classico linguaggio verbale non era un accessibile mezzo di espressione per le donne.

Foto di Kares Le Roy

Dunque, perché non provare a infrangere questo limite creando un sistema di comunicazione con cui il soggetto subalterno possa parlare liberamente e fare del dialogo uno strumento di indebolimento dell’oppressore? Farahi, raccogliendo questa sfida, ha costruito due maschere sulle quali ha applicato diciotto occhi artificiali. Grazie a microcontrollori e attuatori, le ciglia presenti su di essi, muovendosi, sono in grado di trasmettere dei messaggi in codice Morse che l’altra maschera, attraverso il proprio sguardo artificiale, registra e decodifica grazie all’uso di un computer.

Se di primo acchito il tema del progetto può sembrare lontano dalla realtà e legato a riflessioni eccessivamente teoriche, la designer iraniana sottopone alla nostra attenzione due situazioni in cui l’utilizzo di linguaggi in codice ha costituito un’efficace forma di ribellione a condizioni di oppressione.
È grazie all’utilizzo di espressioni in codice, ad esempio, che molte donne, durante il lockdown, hanno denunciato, salvandosi, le ripetute violenze domestiche subite: dalla richiesta in farmacia di una “mascherina 19” in Spagna, alla “mascherina 1522” in Italia fino alle chiamate d’emergenza alle forze dell’ordine per farsi recapitare un’urgente “pizza a domicilio”.
Guardando al passato invece, sorprendente fu l’utilizzo del codice Morse con cui Jeremiah Denton  – pilota statunitense fatto prigioniero durante la guerra del Vietnam – riuscì a lanciare un messaggio di denuncia nel bel mezzo di un’intervista propagandistica. Denton, durante la registrazione del video, infatti, mentre a parole assecondava le volontà dei nord-vietnamiti affermando di ricevere dignitosi trattamenti detentivi, utilizzando il battito delle ciglia, scandiva sette lettere in codice Morse:
T-O-R-T-U-R-A

Se da una parte Can the subaltern speak?, dal punto di vista tecnico, costituisce un traguardo rilevante nel campo delle tecnologie interattive, dall’altra vuole stimolare lo spettatore a riflettere su limiti e potenzialità di sviluppo delle intelligenze artificiali. Le maschere dialogano fino ad arrivare a creare frasi apparentemente ripetitive, senza senso: sono i limiti della tecnologia? No, quegli occhi stanno creando un nuovo linguaggio più semplice ed efficiente… e ci hanno semplicemente estromessi dalla loro conversazione! Ciò non è solo il frutto della fertile immaginazione di Behnāz Farahi, ma è quanto realmente accaduto nei laboratori di Facebook dove si stava tentando di far comunicare tra loro due bot finché l’esperimento non è stato bloccato per un problema imprevisto. I due bot – Alice e Bob, così erano stati chiamati – in modo autonomo, hanno inventato, a partire dall’inglese, una nuova lingua sempre più funzionale al loro scopo comunicativo, con cui hanno continuato a dialogare senza però che nessun essere umano fosse più in grado di capire cosa si stessero dicendo. La paura dell’evoluzione tecnologica non fa desistere, ma deve far riflettere sull’utilizzo che vogliamo farne: i ricercatori di Facebook riprenderanno le sperimentazioni dopo aver restituito all’uomo il pieno controllo sulle intelligenze artificiali.

Sguardi curiosi e irrequieti che nascondono storie, domande mai poste e pensieri taciuti… trasformare gli occhi in labbra e il silenzio in voce è possibile, dunque… parola agli sguardi!

Una risposta a “PAROLA AGLI SGUARDI”

  1. Siete grandi!

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