Recensione: La civetta cieca

La civetta cieca, di Sadeq Hedayat, Carbonio Editore 2020, traduzione e introduzione di Anna Vanzan, pp. 135, 14.50 euro.

 

“Nella vita ci sono malanni che come la lebbra, nella solitudine, lentamente mordono l’anima fino a scarnificarla. […] L’unica terapia è l’oblio dato dal vino, o la sonnolenza provocata dall’oppio e droghe simili: purtroppo, però, essi procurano effetti solo temporanei, e la pena, anziché scomparire, dopo qualche tempo si palesa ancor più inesorabile”.

 

L’anno appena trascorso ha segnato il ritorno nel panorama letterario italiano di un’opera che è considerata una pietra miliare della letteratura persiana moderna.

La civetta cieca di Sadeq Hedayat prende nuova vita grazie alla penna prestigiosa di Anna Vanzan, che ci ha tristemente lasciato ormai da qualche settimana. La peculiarità di questa nuova versione è data dalla traduzione in italiano condotta, per la prima volta, direttamente sul testo originale persiano. Il risultato è una prosa complessa che rende perfettamente godibile la scrittura di Hedayat, tra immagini deliranti e raffinatezza formale.

 

È un racconto maledetto quello che l’autore affida alle parole del protagonista, un miniaturista di scatole portapenne afflitto da un profondo male dell’anima, fragile e solo in una stanza, disilluso e stretto nella terribile morsa dei ricordi. Sono pensieri confusi e offuscati dall’alcol e dall’oppio, un continuum irrazionale di immagini tra sogno e realtà, luci e ombre, amore e morte, che confondono il lettore e lo trasportano in un viaggio allucinato e ipnotico. Hedayat, nei panni del protagonista, è una civetta – simbolo di sfortuna nella cultura persiana – cieca e ottenebrata; inerme davanti a quell’umanità che disprezza.

 

“Ho visto tante di quelle contraddizioni e udito tanti di quei discorsi strampalati! La mia vista s’è consumata sulla superficie degli oggetti, sulla crosta sottile e al tempo dura che nasconde l’anima delle cose, e adesso non credo più a niente”.

 

Gli rimane una sola via di fuga: scrivere i ricordi di una vita e indirizzarli alla propria ombra, quell’ombra severa che lo insegue e lo giudica, affinché, dopo aver rifiutato qualsiasi rapporto con gli esseri umani, possa almeno conoscere se stesso.

 

“Scrivo unicamente per la mia ombra, che si allunga sul muro seguendo la luce della lampada: è a lei che mi devo presentare”.

 

Il primo ricordo è legato a una donna, o forse un angelo, dagli occhi luminosi e velati d’ombra allo stesso tempo. La donna, misteriosa e seducente, appare come uno spiraglio di luce nel pertugio di una stanza claustrofobica, tanto folgorante quanto evanescente; una visione che difficilmente si dimentica: due occhi neri e incantatori; un vecchio avvolto da un mantello, seduto ai piedi di un cipresso, con il turbante in testa; i fiori di calistegia. Una visione che il miniaturista ripeterà all’infinito nei suoi astucci portapenne fino a quando, ormai persa ogni speranza di rivederla, ecco che la fanciulla varca la porta di casa e si dirige dritta sul suo letto: lo stupore è grande quanto la voglia di possedere finalmente quegli occhi. Ma la fanciulla muore tra le sue braccia, forse avvelenata. O forse no. I ricordi sono vaghi e confusi.

E poi scorrono i ricordi legati all’infanzia, all’India, a lei, la “Sgualdrina”, quella moglie che disprezza con tutto se stesso, che lo rifiuta e lo tradisce con gli esseri più laidi, eppure non può fare a meno di desiderarla. È impossibile distinguere ciò che è realtà da ciò che è finzione, così come si mischiano tra loro i personaggi che si ripetono nella narrazione e si fissano nei dipinti del miniaturista.

All’improvviso, un coltello da macellaio, l’impulso della morte, colei che sola può liberare dai tranelli della vita. Eppure, tra le righe deliranti, emerge una forte tensione tra la vita e la morte, un desiderio di riscatto malcelato, la voglia di tornare all’origine del male e di rinascere.

 

“Desideravo rievocare la mia infanzia, ma quando il desiderio si faceva realtà e percepivo quello che sentivo allora, ero afflitto dal medesimo dolore!”

 

La civetta cieca è un vero e proprio capolavoro del Novecento. Il romanzo è stato pubblicato nel 1936 a Bombay e solo nel 1941 inizia a circolare in Iran, dopo l’abdicazione di Reza Shah Pahlavi, e ancora oggi è inviso in patria. Fortemente anticlericale, erotico, riprovevole, il romanzo fonde in sé la tradizione persiana dell’autore unita al simbolismo e all’esistenzialismo francese, nonché alla filosofia buddista. È un’opera ancora attuale nel descrivere la decadenza dell’animo umano, quel male di vivere e quella dolorosa introspezione che hanno valso allo scrittore l’accostamento con gli occidentali Poe e Kafka.

Difficilmente il lettore si troverà indifferente davanti alle fragilità del protagonista. Chi non si è mai chiesto cosa sia davvero la felicità e chi non è mai stato cieco davanti al proprio dolore, pur di non continuare a soffrire? Ma quando si è davanti al baratro, prima che la discesa agli inferi cominci, è preferibile annullarsi, annebbiare il dolore nel vano tentativo di sfuggire alla vita, o affrontare il male dell’anima e curare le ferite? Se la letteratura non può rispondere a tutte le domande dell’uomo, può almeno lenire la sofferenza con la liricità delle parole. E questo è ciò che Hedayat è riuscito a compiere con il suo romanzo.

 

Sadeq Hedayat (Teheran, 17 febbraio 1903 – Parigi, 4 aprile 1951) intellettuale iraniano di famiglia nobile, è annoverato tra i padri della letteratura persiana moderna. Autore di romanzi, saggi, racconti e opere teatrali, si rifugia nella letteratura, ossessionato dal pensiero della morte. Profondo conoscitore della storia e del folklore dell’Iran, nonché della letteratura occidentale, Hedayat si trasferisce prima in Belgio e poi a Parigi. Successivamente si reca in India, dove rimane affascinato dalla filosofia buddista e dove intraprende un percorso introspettivo alla ricerca dell’io più profondo. Trascorre i suoi ultimi giorni nella capitale francese, dove muore suicida.

Acquista il libro: https://bit.ly/3i4aJqU

Monica Mattana

Monica Mattana, nata a Cagliari, si è laureata a Firenze in Strategie della Comunicazione Pubblica e Politica. Fin dai primi anni degli studi universitari, si occupa di comunicazione, eventi culturali e social media in Italia e all’estero. È appassionata di libri, scrittura, viaggi e culture straniere, in particolare quella persiana.


Genere: narrativa, romanzo

Lascia un commento