La traduzione come mezzo di riscoperta della propria lingua. Intervista a Federica Ponzo.

Ciao Federica, ti va di raccontarci quando e come è nata la passione per il persiano?

Guardando la mia storia a ritroso mi viene da dire che l’incontro con il persiano è stato per me un episodio di serendipità. Mi sono imbattuta nel persiano in modo abbastanza inconsapevole.

Dopo la maturità mi sono iscritta a  Lingue e Civiltà Orientali all’università di Roma scegliendo come prima lingua l’arabo. Nel percorso di studi era previsto anche un esame di lingua persiana ed è così che si è aperta una porta verso un mondo che ha suscitato in me, in modo totalmente imprevisto, una curiosità sempre maggiore che mi ha portato poi a cambiare i miei piani iniziali.

So che hai studiato per alcuni periodi in Iran, com’è stato parlare e utilizzare nel quotidiano una lingua che fino a quel momento avevi studiato solo sui libri? E poi, parlaci anche dell’incontro tra il persiano che hai conosciuto studiando e il suo utilizzo pratico e quotidiano nel paese.

Il primo impatto penso sia sempre inevitabilmente complesso. È un momento impegnativo quello in cui si passa dalle conversazioni in lingua dell’università, molto tolleranti riguardo ai tempi di comprensione e di risposta, all’utilizzo di quella stessa lingua per vivere e destreggiarsi nel quotidiano. Una volta che si è sul campo la priorità diventa quella di comunicare, quindi di capire l’altro e di farsi capire, mentre il parlare grammaticalmente in modo corretto passa in secondo piano.

L’insegnamento delle lingue straniere in Italia si concentra molto sugli aspetti teorici e poco sul loro utilizzo pratico e questo squilibrio si sconta una volta che si arriva nel paese e si prende il primo taxi. Non è un caso che di fronte ai miei primi tentativi di parlare persiano in Iran, le persone ridevano dicendo che parlavo come un libro! Fortunatamente però il persiano parlato si impara velocemente e la permanenza nel paese ha reso l’apprendimento linguistico più naturale e spontaneo.

Perché hai iniziato a tradurre?

La traduzione è sempre stata al centro dei miei studi di persiano, i corsi che seguivo all’università erano di Lingua e Traduzione quindi, sin dall’inizio, l’impostazione accademica è stata orientata alla traduzione scritta. Questo percorso mi ha permesso di capire più a fondo la complessità e l’importanza che si cela dietro l’atto del tradurre, ed è per questo che sin dai primi anni d’università ho sempre cercato di cimentarmi nella traduzione di testi, soprattutto letterari. 

Come è stato il primo “faccia a faccia” con il testo da tradurre? 

Come dicevo, essendo stata la traduzione al centro del mio percorso universitario, si è trattato di un avvicinamento graduale e guidato a questo lavoro. Nei primi anni di studio sembrava un’impresa impossibile poter arrivare a tradurre anche solo un’intera pagina e il fatto di dovermi confrontare con pagine scritte in un alfabeto con il quale non avevo ancora grande dimestichezza rendeva il tutto più minaccioso.

Andando avanti però l’impresa si è fatta sempre meno impossibile e, man mano che la mia conoscenza del persiano migliorava, mi sono accorta che la difficoltà si spostava gradualmente dal capire il significato del testo in persiano al renderlo in modo efficace e preciso in italiano. E questo mi ha portato a riscoprire e ad apprezzare anche la mia stessa lingua.

Qual è stata la prima cosa che hai tradotto? È un testo a cui sei affezionata? 

Il primo testo da me scelto, tradotto a titolo di primissimo esperimento, è stato un racconto breve della scrittrice iraniana Fariba Vafi. Il racconto breve era un genere che mi incuriosiva molto perché è uno dei generi letterari che va per la maggiore in Iran e poi, essendo molto corto, pensavo potesse essere una buona idea per iniziare. In corso d’opera però mi sono dovuta ricredere: tradurre racconti brevi è una sorta di sfida all’ultimo sangue! Le parole sono centellinate e il messaggio del racconto è affidato alla loro precisione semantica. È come un grande puzzle composto da pochi pezzi: se si sbaglia ad incastrare anche un solo pezzo, si compromette l’intera immagine che non sarà di conseguenza decifrabile dall’osservatore… insomma forse non ho scelto il testo più semplice per iniziare!

Potenzialmente il lavoro del traduttore è infinito. Più si rilegge il testo che abbiamo tradotto e più si ha la tentazione di fare delle modifiche. Com’è il tuo approccio in merito? Sei molto autocritica o sei più da “buona la prima”?

Questo è per me uno degli aspetti più controversi di questo lavoro. Modificare ciò che ho scritto occupa la maggior parte del tempo che impiego nella traduzione. Ci sono varie fasi nel lavoro di traduzione che permettono di procedere per gradi. Si parte da una traduzione più ‘grezza’ per muoversi verso un testo d’arrivo sempre più preciso e puntuale. Il problema di queste fasi è che non hanno un numero preciso, possono essere anche infinite perché dipendono strettamente dalle abilità del traduttore e dalla rigidità della sua autoverifica basata su parametri che hanno molto a che fare con la sua scuola di pensiero. C’è ad esempio chi preferisce una traduzione più fedele al testo di partenza, chi invece predilige una resa più fedele alla naturalezza della lingua d’arrivo. Tradurre è un lavoro che implica soggettività e, proprio per questo, su un testo ci si potrebbe lavorare per anni.
Io sono molto autocritica e mi piace limare il testo cercando di trovare i termini più adatti. È una bella sfida con sé stessi e con la conoscenza e la capacità di giocare innanzitutto con la propria lingua. Questo però mi porta spesso, come dici tu, a fare della traduzione un’opera infinita!

Quando traduci quanto è importante il contributo di un madrelingua per la disambiguazione di frasi e/o concetti, laddove possibile reperirlo?

Per me è stato e continua ad essere un aspetto essenziale del lavoro di traduzione. La possibilità di confrontarsi con un madrelingua ti dà la possibilità di entrare appieno nel testo e nei messaggi che l’autore o l’autrice vuole veicolare. Tradurre non implica solo il conoscere bene la lingua, ma anche il saper individuare le reti di significati che chi scrive si aspetta si attivino nel lettore. Non è sempre semplice rintracciarle, spesso ci sono significati che si agganciano a particolari aspetti culturali, storici o anche folkloristici che richiedono una profonda conoscenza di quel contesto. Il potersi confrontare con una persona immersa in quella realtà e che è in grado di svelare appieno questa rete di significati carica il risultato finale della traduzione di un valore aggiunto.

A tal proposito la sociolinguista Vera Gheno scrive: “Le parole non sono mai ‘solo parole’: sono ponti verso coloro che ci circondano, finestre su mondi, ganci a grappoli di significati.” In questo senso i traduttori hanno l’onere e l’onore di costruire ponti, senti il peso della responsabilità in questo senso?

Sì, è una grande responsabilità tradurre, soprattutto quando lo si fa da lingue che si collocano fuori dal proprio sistema culturale. Se da una parte, come dicevo sopra, c’è a volte la difficoltà di comprendere i “grappoli di significati” – come li chiama Gheno – dall’altra parte c’è anche la paura di non riuscire a veicolare in modo efficace concetti e aspetti culturali estranei al contesto d’arrivo.

Non è un’impresa facile trovare il giusto compromesso tra il voler rimanere fedeli alle parole dell’autore o dell’autrice, ricostruire lo stile letterario impiegato e nello stesso tempo tenere in considerazione anche la comprensibilità e l’efficacia del testo per il pubblico italiano. Io ritengo  quest’ultimo aspetto particolarmente importante.

Quando traduco cerco il più possibile di calarmi nei panni del lettore italiano e di tenere in considerazione la conoscenza media che si ha in Italia della cultura persiana e dell’attualità iraniana. Penso che la traduzione sia uno dei mezzi più efficaci per far arrivare un’immagine più realistica del contesto culturale che caratterizza l’Iran contemporaneo, direttamente descritto da chi lo vive.

Hai partecipato al numero monografico “Storie” della rivista Internazionale (numero 1441) dedicato alla letteratura iraniana e, per la stessa rivista, hai poi tradotto il racconto di Jafar Modarres Sadeqi “Oltre la nebbia”. Quanto pensi sia importante conoscere gli scrittori odierni per comprendere un paese apparentemente così distante dal nostro?

L’Iran è un paese estremamente prolifico dal punto di vista letterario e personalmente ho sempre considerato questa sua caratteristica come sintomo di una grande voglia di raccontarsi e di mettersi in continua discussione. Prestare un orecchio a queste voci è importante per decostruire la visione stereotipata con cui spesso si guarda a questa società e scoprire una realtà culturale inaspettatamente vicina a noi. Penso che il numero che Internazionale ha dedicato all’Iran sia riuscito bene a fornire ai lettori un’idea del variegato panorama letterario iraniano e delle sue potenzialità.

Un consiglio a chi vorrebbe avvicinarsi al mondo della traduzione.

Sperimentate il più possibile! La traduzione è un’attività che implica una forte dose di soggettività, per questo ognuno deve costruirsi la propria particolare dimensione rispetto a questa sfida.

In questa pagina puoi leggere alcune traduzioni di Federica Ponzo pubblicate da Negah. Puoi anche ascoltare il podcast in italiano e persiano.

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